Sulla strada di ritorno dal Safari nel Tsavo East, il nostro amico Dida, gentile e bravissima guida, ci chiede se abbiamo voglia di visitare un villaggio Masai. Pur consapevoli che i Masai dei tempi moderni hanno saputo sfruttare sapientemente l’icona del guerriero “senza paura”, comune all’immaginario collettivo occidentale, abbiamo accettato e pagato anche un prezzo eccessivo, e più che l’espressione della tradizione, il villaggio ha rappresentato semplicemente il luogo ideale per scattare numerose e splendide fotografie.

bambino masai

Tra i tanti gruppi etnici dell’Africa Orientale, i Masai sono i più famosi e facilmente riconoscibili nei cataloghi turistici. In realtà, l’indole di questa popolo è ben lontana da quella guerriera comunemente rappresentata.

Altissimi pastori, antichi guerrieri, i Masai hanno disceso la Rift Valley, più di mille anni fa, provenendo dal Nord del Sudan, per giungere in Tanzania e nel Kenya.

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La Rift Valley, questo immenso corridoio naturale che, nel corso del tempo, ha indicato la via per le migrazioni di popoli nomadi, coltivatori, allevatori e cacciatori, è anche la terra di Lucy, Australopithecus afarensis, un ominide vissuto circa 3 milioni e mezzo di anni fa. Le sue ossa furono ritrovate in terra Afar nel desolato vallone di Hadar, nel 1974. Successivamente, non lontano da Hadar riapparvero le ossa di altri 18 ominidi appartenenti alla specie Ardipithecus ramidus, l’anello mancante dell’evoluzione umana, il primo nostro progenitore che camminava in posizione eretta: era l’alba dell’umanità.

Un luogo senza tempo e senza fine che dall’Eritrea al Mozambico attraversa undici stati africani, un’immensa valle ecologica di popoli e di popolazioni animali e vegetali, di meraviglie morfologiche e d’incontro tra i valori delle tradizioni più antiche e il dilagante turismo di massa dell’era moderna. Ma il popolo dei Masai non cede, difende la propria cultura con fierezza. Assediato dal mondo che velocemente si trasforma, è rappresentato da circa 300.000 individui, molti dei quali vivono ancora in villaggi tipici, nei manyatta, negli engang, gli accampamenti di capanne a cupola costruite con fango, sterco e paglia, costituiti da un recinto spinoso all’esterno per proteggersi dagli animali selvatici, e un recinto spinoso all’interno per accogliere il bestiame durante la notte, con uno spazio separato destinato a vitelli ed agnelli. Al centro dell’abitazione, la cui altezza massima è di un metro e mezzo, vi è un focolare dove cucinare, ad un capo il letto dell’occupante, dall’altro lato il letto per i bambini o un piccolo ripostiglio. Questo tipo di costruzione sta ormai sparendo per essere sostituita da case stabili in pietra o in laminati metallici.

villaggio masai

Dai riti complessi e dalle impressionanti cerimonie d’iniziazione, elegantissimi, occhi profondi e sguardo intenso, in passato i Masai vestivano con pelli, spesso dipinte con colori vegetali. I gioielli erano semplici, fatti con semi e fili di piante. Con l’arrivo del colonialismo, lo stile nel vestire si è modificato radicalmente: dai soldati inglesi, hanno acquisito le tipiche coperte usate per il kilt – shuka – di cotone a quadri con i colori predominanti rosso e nero, diventate ormai un simbolo; in particolare, le donne preferiscono indossare le tuniche a due strati di colore blu, rosso o nero, secondo il loro stato sociale. Le calzature sono sandali di cuoio, sempre più spesso sostituiti da semplici scarpe ottenute da vecchi copertoni di automobile.

Nati come pastori-guerrieri seminomadi, oggi conducono principalmente una vita stanziale, soprattutto in Kenya e questo stile di vita si accompagna alla pratica dell’allevamento e dell’agricoltura come fonte primaria di sostentamento.

La loro lingua è il “maa”, da cui deriva il nome dell’etnia che dai locali è pronunciato “maasai”, e nella società, strettamente patriarcale, gli anziani hanno un potere decisivo quasi assoluto, la loro è una classe sacra, sacerdotale, una classe di saggi. Il consiglio degli anziani è anche chiamato a dare giudizi legali ma non esiste la punizione capitale, sono soltanto attribuite pene severe ad assassini ed a coloro che gravemente mancano di rispetto agli anziani. Nei casi più semplici, una richiesta di scuse o un pagamento di una multa in bestiame, sono sufficienti a porre fine alle liti.

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Dall’infanzia fino alla vecchiaia avanzata, tutti gli uomini sono suddivisi in gruppi di coetanei. I più giovani, dai sette anni di età fino alla pubertà, portano al pascolo il bestiame e si esercitano in quelle che saranno le attività successive: la guerra e la danza. Con il rito dell’iniziazione, al compimento dei venti o venticinque anni, i piccoli mandriani diventano moran, i guerrieri.

Poco fuori dai villaggi, lontano dagli sguardi delle donne, i giovani moran si preparano all’Eunoto, la cerimonia tradizionale che segna la fine della gioventù e l’ingresso nella classe degli adulti. Poi, con i corpi nudi decorati di gesso e completamente disarmati, i giovani in processione si dirigono al villaggio dove si svolgerà la celebrazione, inalberando su lunghe pertiche drappi colorati, diversi per ciascuno di loro; iniziano, quindi, a danzare con gli anziani che sfoggiano enormi trofei di piume di struzzo.

Un tempo il loro compito era quello di una milizia attiva mentre, oggi, proteggono il bestiame, compiono razzie e scorribande in altri gruppi, che permettono loro di arricchirsi rubando mucche. Un’altra attività del moran era quella della caccia al leone, la cui criniera rappresentava un trofeo molto invidiato da poter esibire nelle danze, ma a causa del proibizionismo ecologico anche questa seconda ragione di essere per i giovani Masai è venuta a mancare. Con il passaggio all’età adulta, quando un guerriero non riusciva a superare con coraggio il rito dell’iniziazione, venivano tagliati i lunghi e intrecciati capelli, “rigogliosi come l’erba che cresce”, simbolo della forza e del vigore. Oggi è il governo centrale a chiedere ai giovani di tagliare le folte chiome e di andare a scuola e la punizione vale per tutti loro.

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Diventare adulti per i Masai significa anche potersi sposare, comprando una moglie con cinque mucche, due pecore o un bue, e procreare; più ricchi sono e più mogli possono permettersi ed è per questo motivo che le razzie nei villaggi delle altre tribù diventano necessarie.

Nel villaggio Masai abbiamo assistito all’ultimo salto prima dell’inizio della vita, quando gli adulti guerrieri, formando un cerchio, si mettono a saltare molto in alto, al ritmo di un tipico canto antico, mentre le donne muovono il collo in avanti e indietro, emettendo dei suoni sincopati. La melodia si esprime semplicemente con un coro privo di accompagnamento musicale; echeggia dalla voce principale un solo tono oppure un’armonia che rappresenta il tema musicale, seguito dalle voci di tutto il gruppo. Nella canzoni religiose, il solista normalmente inneggia a Dio mentre il coro, con tono basso, forte e ritmato, chiede al divino di arrivare.

I Masai credono in Enkai, il Dio che si rivela con colori diversi a seconda dell’umore: è nero se contento e buono ma diventa rosso quando è irritato; è un Dio difficile da comprendere ma soprattutto è un Dio dai tanti colori, rappresentando così una realtà molto complessa. Enkai ama gli esseri umani e li aiuta in caso di bisogno con il sostegno di una serie di spiriti, alcuni dei quali con il compito di seguire le vicende umane. Spesso le donne hanno un ruolo sacrale e, in molte famiglie, sono le prime ad alzarsi per benedire il recinto della casa. Oggi, la maggior parte dei Masai è cristiana, o vicina aI cristianesimo.

Sui loro volti, dai lineamenti forti, dagli occhi grandi, espressivi, i Masai compiono diversi cambiamenti, come i disegni simbolici spirituali, riportati anche sul corpo, in alcuni momenti particolari della loro vita, come la perforazione evidente dei lobi, come l’estrazione dei canini nei denti da latte che, secondo il loro credo, potrebbero causare gravi malattie ai bambini, oppure la rimozione negli adulti di uno o due incisivi.

bambino masai

Come la vita, anche l’alimentazione dei Masai ha subito con l’era moderna una grande trasformazione; al pari di tutti i popoli pastori la loro dieta era basata sugli alimenti derivanti dall’allevamento del bestiame, quali la carne, il latte e il sangue del toro, che viene bevuto anche durate le celebrazioni e le cerimonie di iniziazione. Oggi, il cibo più comune dei Masail e il miglio o la farina di mais bolliti nel latte oppure il tè con latte e ginger, la polenta bianca e le verdure cotte, come patate e cavoli, derivati dalla pratica dell’agricoltura, mentre la carne viene consumata soltanto in giorni particolari.

Usciti dal villaggio, dopo aver ripreso molte immagini con le foto, un velo di malinconia ha pervaso i nostri pensieri, la visita programmata a quel gruppo di Masai era forse apparsa come una caricatura di un antico mondo di cui era rimasto molto poco della sua originaria realtà culturale.

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Oggi, viaggiando nei territori del Kenya, si possono scoprire ambienti ancora ricchi di natura e immaginare il contesto di forme, di suoni e di colori in cui l’uomo svolgeva le sue ancestrali attività. Quasi in un mutuo scambio di attenzioni la natura ancora intatta in questa terra attira la nostra presenza e noi le facciamo omaggio catturando le sue immagini con le nostre emozioni. Sulla terra e sulle rocce la natura ha scritto i suoi motivi e impresso le sue tracce: disegni sempre diversi, cancellati ogni giorno e continuamente ridisegnati dal vento e dalla pioggia; spettacolari paesaggi di luce e di colore, di rocce e di cielo, di foreste secolari e di mare trasparente, rimangono testimoni eterni della storia dell’uomo, come in una sorta di poesia visuale che commuove o entusiasma, che tocca o stupisce e che non ha più bisogno di parole.

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